lunedì, Ottobre 7, 2024
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Termini della privacy e trattamento dati personali su Whatsapp. Tanto rumore per nulla

In questi giorni, un argomento di discussione che impera sul web, è quello del cambiamento dei termini sulla privacy e sul trattamento dei dati personali, imposto da una delle piattaforme social più frequentate al mondo: Whatsapp. Da qualche giorno, facendo l’accesso all’app, si apre una finestra che informa circa questo cambiamento degli accordi, e sulla obbligatorietà di accettare i nuovi termini, pena la cancellazione dell’account. Tali nuove disposizioni prevedono lo scambio dei dati personali (numero telefonico, nome, indirizzo e-mail, contatti, localizzazioni, etc.) tra Whatsapp e Facebook (le due piattaforme sono di proprietà della stessa persona, Mark Zuckerberg), nonchè la possibile vendita di tale pacchetto di informazioni ai colossi internazionali del marketing, che li userebbero a fini pubblicitari. Detto in soldoni, queste informazioni vengono utilizzate per stilare delle pubblicità “su misura” per ognuno di noi, pubblicità che ci vengono propinate ogni volta che entriamo nel web. Secondo molti, questa sarebbe una scandalosa ed inaccettabile violazione della privacy. Alcuni personaggi di spicco planetario, Elon Musk tra gli altri, hanno provveduto ad abbandonare Whathsapp per passare ad altre concorrenti, invitando il pubblico a fare lo stesso. Qualche giornalista scrive che questo “abuso” delle nostre personali informazioni è finalizzata a proporci pubblicità ad hoc che avrebbero il potere di condizionarci a tal punto da “crearci dei nuovi bisogni” che altrimenti non avremmo avuto e che ci spingerebbero ineludibilmente verso determinati acquisti, incentivando in tal modo un consumismo sfrenato, con tutte le conseguenze che ne derivano, con il fine ultimo (e deplorevole) di far arricchire in maniera spropositata i pochi tiranni mediatici che, come burattinai invisibili, tirano i fili delle nostre scelte, “obbligandoci” a comprare i loro prodotti.
L’indignazione, come uno tsunami, sta travolgendo l’intero globo. Ma, l’indignazione, come altri sentimenti, spesso, è contagiosa e si trasmette più per emulazione che perchè la si condivide. E, in tal caso, non fatica a trasformarsi in ipocrisia, quando ad indignarsi sono tutte quelle persone (e sono la stragrande maggioranza) che hanno fatto della “condivisione” la loro quotidiana e morbosa filosofia di vita. Oggigiorno sono pochi coloro che non postano su uno qualsiasi dei social network (o, possibilmente, su tutti quelli a disposizione), almeno una volta al giorno (ma, molto più spesso, una volta ogni ora circa), una notizia, una foto, un’informazione che riguarda aspetti anche estremamente intimi della loro vita privata, che di “privato” non ha più proprio nulla. Centinaia di persone, molte anche sconosciute, amici di amici, sanno cosa hanno mangiato a colazione, dove vanno a pranzo la domenica, se hanno un gatto piuttosto che un criceto, se prendono il caffè amaro o zuccherato. Tutti sono affetti da questo morbo, che potrebbe quasi ritenersi più pericoloso del coronavirus, una smania incontrollabile, una dipendenza a tutti gli effetti, che spinge tutti quelli che ne sono affetti a sbandierare ai quattro venti tutto quello che li riguarda, forse per esibizionismo o per “bisogno” di uniformarsi o per competizione.
Allora, se noi stessi non abbiamo più rispetto della nostra stessa privacy, perchè poi pretendiamo che ce l’abbiano gli altri? Dopotutto, siamo consapevoli che qualunque cosa immettiamo nel web può venire sottratta da chiunque e venire utilizzata per scopi non leciti. Per quanto validi siano i sistemi di sicurezza a garanzia dei fruitori, il sistema può avere delle falle e i malintenzionati sono appostati dietro l’angolo. Tutti ne siamo consapevoli, eppure tutti continuiamo a “condividere” ignorando i rischi. E’ come riporre i nostri soldi in una scatola sulla soglia di casa e indignarci, poi, nel caso ci vengano sottratti dal primo “fortunato” che passa. In fondo, questa condivisione dei dati prevista dalla piattaforma ci è stata comunicata, abbiamo la possibilità di scegliere…..scegliere di dire “no”, scegliere di non condividere la nostra vita privata, scegliere (auspicabilmente) di essere più responsabili, più cauti e meno sprovveduti, anche a rischio di essere meno “social”. Per quanto riguarda, poi, la “tirannia dei colossi del marketing”, perdonatemi, ma anche questa mi sembra una di quelle teorie complottiste, che vanno tanto di moda di questi tempi. A meno che qualcuno non venga a casa mia e mi costringa a comprare qualsiasi cosa, io non mi sento tirannizzata da nessuno, perchè, nonostante mi possano incalzare con pubblicità ogni qualvolta entro in internet, mantengo la mia totale libertà di scelta: scegliere se aprire la pubblicità o chiuderla con un “tap” sullo schermo.
Anzi, il fatto che mi inviino degli spot sulla base delle mie ricerche online, lo vedo come una comodità, perchè ciò che magari non riesco a trovare io, me lo porgono su un piatto d’argento le pubblicità. E se, alla fine, mi lascio “ammaliare” da esse, come Ulisse dalle sirene, la responsbilità di ciò sarà stata soltanto mia e non di chi me le ha proposte.

Daiana Melfi

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